|
National
Geographic
Italia
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Finis
Terrae. Viaggio dove l’Italia finisce, tra le anime multiple
dei quattro estremi geografici del paese e le aree alle loro
spalle: Otranto, Puglia (est); Portopalo, Sicilia (sud); Frejus,
Piemonte (ovest); Vetta d’Italia, Alto Adige (nord). Reportage
(testo+foto) sul National Geographic Italia del luglio 2011
Estremo Est. Il sole allo zenit annulla
le ombre. Rende ancor più bianca la pietra del piazzale,
fa risaltare le linee pure del quadrilatero della basilica-fortezza,
il perimetro ad archi. Un gruppo di suore attraversa lieve lo
spazio per affacciarsi sul belvedere, accanto al faro. L’aria
è sospesa, la scena aperta. Sembra un luogo astratto
disegnato da un De Chirico levantino. Dev’esserci qualcosa
di raro. Sarà il promontorio che si butta in mare, l’incrocio
dei venti, l’orizzonte circolare. Il capo è da
millenni un luogo sacro. Su questa roccia è sorto prima
un tempio a Minerva, poi un santuario. La tradizione narra che
Pietro, sbarcato dalla Palestina, vi fondò «il
primo luogo cristiano d’Italia, poi dedicato alla Madonna»,
spiega Don Giuseppe Stendardo, parroco della basilica-santuario
Santa Maria De Finibus Terrae. Qui la fine della terra è
un toponimo e una certezza geografica. Un cartello recita “benvenuti,
welcome, de finibus terrae”. Oltre il capo di Santa Maria
di Leuca non c’è nulla, attorno sì. «Quasi
tutti i giorni si vedono le montagne dell’Albania; alcune
isole greche, la mattina presto; la Calabria, al tramonto»,
racconta Michele Rosafio, addetto alle strutture ricettive del
santuario. «Sembra di essere davvero alla fine del mondo
quando arriva un temporale dal mare, con nuvole nere e fulmini
che cadono dappertutto in acqua». L’incontro dei
due mari, Jonio e Adriatico, è un’attrattiva turistica
e c’è anche nelle cartoline, «in realtà
è a Otranto, ma se i turisti lo vogliono credere li lasciamo
fare», confessa Michele. Attorno, la costa è aspra
e felice, ulivi, case tra i muri a secco, qualche solito abuso
all’italiana nella macchia mediterranea. Risalendo la
costa, 45 km più su, si raggiunge il punto più
orientale d’Italia: Capo d’Otranto, Punta Palascìa,
18°31’14” di longitudine est. Dalla Puglia comincia
il viaggio verso le finis terrae - i punti più a est,
sud, ovest e nord d’Italia - dove quel nome indica ancora
qualcosa. Per Silvia Godelli, assessore regionale al Mediterraneo,
Cultura e Turismo, «finis terrae è una definizione
letteraria carica di suggestione. Non è un concetto limitativo,
anzi. Indica uno sconfinamento al di là del mare. Il
Salento è un luogo di collegamento, di transiti da e
verso Oriente, nostro dirimpettaio, dove culture differenti
si sono sedimentate attraverso il dialogo, la curiosità
verso l’altro». Da qui si può osservare la
prima alba d’Italia. L’Albania è a 35 miglia.
«Nel 1998, durante la crisi del Kosovo, alle spalle del
faro vennero montate batterie di missili», ricorda Elio
Paiano, giornalista e storico locale; «d’altra parte
questa è stata una delle frontiere della Cortina di Ferro.
L’ultimo guardiano del faro ad abitare a Palascìa
mi raccontava che, nel Canale d’Otranto, fino agli anni
Sessanta, gli albanesi facevano le esercitazioni e sparavano,
tre volte al dì, in questa direzione». Il contatto
con l’Oriente è stato a volte terribile. In una
cappella della Cattedrale di Otranto è conservata la
pietra su cui nel 1480 vennero decapitati 800 uomini sopravvissuti
alla battaglia contro le truppe di Gedik Achmet Pascià,
tutti maschi da 14 anni in su che avevano rifiutato di convertirsi
all’Islam. Le ossa sono disposte ordinatamente in grandi
armadi a muro protetti da vetri, i teschi rivolti verso chi
guarda. Dal porto si vedono uscire navi che trasportano merci
verso est. Sulla passeggiata lungo il mare tira sempre vento.
L’Oriente in fondo è là, di fronte. «Tra
le regioni italiane, la Puglia è quella che nel 1991
con l’arrivo delle navi degli albanesi ha ricevuto per
prima uno schiaffone, che prima delle altre ha cambiato la percezione
di sé», sostiene il sociologo Franco Cassano, «perché
ha capito che era finita la storia segnata dalla divisione del
mondo in due e che si riaprivano i contatti con quello che era
al di là dei confini. Che invece di essere il lembo estremo
di un nord ricco e benestante era un luogo di passaggio, di
contatto con gli altri, dove gli altri arrivavano». Al
Centro di primissima accoglienza dicono che si registrano ancora
arrivi di clandestini, ma poco rispetto agli anni Novanta quando
Otranto era la porta d’accesso all’Italia. Contatti
di oggi, passaggi di ieri. Dopo la vittoria di Lepanto del 1571,
la minaccia saracena si attenua e anche l’architettura
cambia. Il sistema di torri, sulla costa, di masserie e castelli,
all’interno, si converte. Le strutture difensive si trasformano
in residenze nobiliari, prevale l’estetica, trionfa il
barocco. Lecce è il retroterra sontuoso. «Il Salento,
quasi improvvisamente, è diventato di moda. Prima si
scappava, ora si ritorna; prima dicevo sono pugliese, ora sono
salentino», sintetizza il giornalista Pierpaolo Lala.
La riscoperta della musica popolare, il successo di diversi
gruppi e il boom del fenomeno taranta hanno contribuito a rafforzare
l’identità. In una delle location di Mine vaganti,
Chiara Torelli, attrice per divertimento e dentista di professione,
osserva che «una luce così, a metà tra quelle
europea e nordafricana, c’è solo qui e ha contribuito
a far diventare il Salento un set cinematografico». Il
fermento va in direzioni multiple. Alcuni vivono l’identità
in maniera radicale, al punto da volersi separare. Paolo Pagliaro,
patron di TeleRama, Presidente del Movimento Regione Salento,
denuncia «il Bari-centrismo della spesa pubblica e delle
scelte politiche ed economiche» e propone, in ottica federalista,
«una nuova Regione, il Salento, per raggruppare l’omogeneità
culturale e la fusione di esperienze storico-antropologiche
che in passato hanno costituito la Terra d’Otranto»,
in pratica le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Si lascia
l’Adriatico e il Salento dalla sua porta nord-ovest, Gallipoli,
lungo la statale Jonica. Il sole tramonta sui pescherecci che
rientrano ... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Dentro
il Quirinale. La vita quotidiana di chi vive e lavora nel Palazzo
per eccellenza delle istituzioni italiane, dai giardinieri ai
consiglieri, sede di papi e re e dei Presidenti della Repubblica.
Un mondo a parte, la “casa degli italiani”. Reportage
(testo+foto) sul National Geographic Italia del gennaio 2011
Il suo mestiere è regolare il tempo.
La ricarica avviene due volte a settimana. Tranne che per gli
orologi che hanno un ciclo di ventiquattro ore. Lungo corridoi
affrescati, saloni delle feste, logge d’onore. Impiega
fra due e tre ore, per fare il giro dell’intero palazzo.
Passando da una pendola in bronzo dorato e tartaruga del Seicento
stile Luigi XIV a un orologio astronomico in alabastro dell’Ottocento
con calendario perpetuo. Controlla e carica. Non ci sono pile,
«trasferisco la mia energia agli orologi attraverso la
molla: lo faccio da ventidue anni, prima di me lo hanno fatto
per secoli i miei predecessori, dopo di me lo faranno altri»,
dice Stefano Valbonesi, orologiaio a palazzo. Fino a due anni
fa, per il passaggio dell’ora legale, capitava anche di
farlo a notte fonda, nelle mani una lampada e un enorme mazzo
di chiavi. «Percepivo di più come doveva essere
la vita a palazzo nei secoli passati», i passi dei papi,
dei re, di cortigiani e ministri. Qui il tempo del potere non
si è mai fermato. Nel portico davanti allo scalone d’onore
vi è una lapide con incisi tre elenchi. Trenta papi,
quattro re, dieci presidenti della Repubblica. Manca l’ultimo,
Giorgio Napolitano, perché in carica. Secoli di storia,
riassunti in un metro e mezzo per due. Il potere ha soggiornato
e abita qui. «Il Quirinale», afferma Louis Godart,
Consigliere del Presidente per la conservazione del patrimonio
artistico, «è un luogo unico, sede dell’auctoritas
da cinque secoli, nessun altro palazzo al mondo ha questo spessore
cronologico enorme». Oggi è la sede della Presidenza
della Repubblica, “il Colle” citato quotidianamente
in cronache e dibattiti. L’espressione massima delle istituzioni
e, allo stesso tempo, un museo. La “casa comune degli
italiani”, si sente ripetere spesso. Perché, come
afferma con forza lo stesso Giorgio Napolitano, il palazzo «non
può che essere un museo aperto ai cittadini d’Italia
e del mondo». Si anima con i visitatori della domenica,
le scolaresche, i gruppi. Per i concerti o in occasione del
2 giugno, unica data in cui aprono i suoi celebri giardini.
Il Quirinale è anche una cittadella a sé stante,
proprio per come è stato progressivamente pensato ed
edificato, sul più alto dei sette colli. Una reggia repubblicana
con mura, porte, guardie, controlli. «Il luogo più
sicuro d’Italia», dicono con orgoglio. Un mondo
a parte. Quando si passeggia intorno al suo perimetro, se ne
coglie la compattezza da roccaforte. Appena fuori le mura, vicino
all’antica Porta della Panetteria, un mercatino resiste,
tra venditori ambulanti e turisti che sciamano verso Fontana
di Trevi. Da fuori, si nota ancor più il colore del palazzo
di un bel chiaro che richiama il travertino, come si voleva
in origine per sottolinearne la monumentalità. Nella
Coffee House dei Giardini si trova un quadro della piazza del
Quirinale del 1733 di Giovanni Paolo Panini, dove il palazzo
appare di un celestino “color dell’aria” la
cui formula segreta sarebbe conservata negli archivi vaticani.
Nel tempo il colore cambierà ancora, fino ad arrivare
al mattone dei Savoia. Per tornare al travertino, color della
pietra, di oggi. Un palazzo di quasi cinque secoli, poggiato
su millenni di storia, è in sé un oggetto di archeologia.
Per le continue modifiche e ristrutturazioni che hanno coperto
o sostituito altro, gli allargamenti, le edificazioni successive.
Un luogo dove è stato difficile scavare. Sfogliando qualche
libro sul palazzo o curiosando nei suoi corridoi dove sono appese
riproduzioni d’epoca, si osservano affreschi del ‘500,
oli su tela del ‘700, disegni, acquerelli, illustrazioni,
incisioni all’acquaforte, tempere su pergamena, dedicate
alle vedute del Quirinale, della sua facciata e della Piazza
di Monte Cavallo (l’altro nome con cui è conosciuto
il colle per la presenza dei due colossali gruppi scultorei
dei Dioscuri con i loro cavalli). Si assiste all’ingresso
e all’uscita dei cortei delle delegazioni diplomatiche
straniere in visita alla Santa Sede, alle benedizioni, alle
feste barocche, ai carnevali sulla piazza, al papa costretto
dai francesi a lasciare il Quirinale per essere condotto in
esilio. Ci si accorge che a volte l’obelisco c’è,
altre no; del diverso posizionamento dei Dioscuri; della grandezza
e larghezza delle vie che varia. È come assistere allo
srotolamento di un film su quei secoli, un po’ in bianco
e nero, un po’ a colori. Con profusione di cavalieri,
dame, carrozze, sfondi di rovine di terme e templi. Il palcoscenico
è la piazza che muta per farsi teatro urbano, scenografia
classica della vita cerimoniale del palazzo. Si realizza quanta
storia sia passata da qui, di quanti eventi siano state testimoni
e quinte le sale e le mura di questo palazzo. Il Quirinale condivide
con il Palatino le più antiche memorie dell’Urbe.
Una decina di anni fa, la posa in opera di impianti tecnologici
in un’area dei giardini ha portato ad avviare una campagna
di scavo e permesso di ritrovare alcuni resti di domus signorili
datate tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C. Oggi, una botola
alla James Bond con apertura meccanica, che una volta chiusa
si mimetizza con i viali dei giardini, permette di accedere
a un frammento della Roma imperiale. Un ambiente, dal microclima
protetto, di case con porzioni di mosaici coesiste con i tubi
del condotto tecnologico, che scorre accanto, che lo rendono
simile a un Beaubourg ipogeo. La presenza dell’uomo sul
colle risale al VI secolo a.C., con stirpi di origine sabina.
Quirino - da cui deriva Quirinale - è il nome che Romolo
divinizzato assume dopo la morte e l’ascesa al cielo.
Sul colle doveva sorgere il suo tempio, che gli archeologi stanno
ancora cercando. Il colle, nel tempo, ha conosciuto poi un sovrapporsi
di fasi storiche, civiltà, passaggi. «In una delle
aree di scavo», fa notare Maria Giuseppina Lauro dell’Ufficio
per la conservazione del patrimonio artistico del Quirinale,
«è stato ritrovato un grande bruciato, segno delle
invasioni barbariche che venivano da nord, lungo la Nomentana.
Dopo aver catalogato e studiato, si è ricolmato per gli
archeologi del futuro. Scavare in un giardino storico, un monumento
in sé, è cosa delicata. I giardini sono un bene
da tutelare così come gli affreschi, le gallerie, le
sale» … |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Profondo
Nord. Viaggio alle Isole Svalbard, scenario di uno dei capitoli
più avventurosi della storia delle esplorazioni: la conquista
del Polo Nord. Sulle tracce degli uomini della Tenda Rossa,
tra orsi bianchi e trichechi, antiche stazioni baleniere e centri
di ricerca scientifica. Reportage (testo+foto) sul National
Geographic Italia del marzo 2010
Le lastre di ghiaccio attorno alla nave
che avanza si fanno sempre più fitte, trasformando il
giardino di piccoli iceberg in una distesa compatta. Il sole
rimane alto. Nell’estate polare non c’è buio,
non c’è notte. Ogni tanto banchi di nebbia improvvisi
immergono in un crepuscolo lattescente. La nave-spedizione per
turisti arranca, accerchiata dal pack. Toccato l’80°
parallelo di latitudine nord, si brinda con vodka all’exploit
geografico. Il Polo Nord è un migliaio di chilometri
più su; Capo Nord, punta settentrionale del continente
europeo, 1.000 chilometri a sud. La banchisa diventa via via
più densa, fino a saldarsi. Non si passa, bisogna tornare
indietro. Succede oggi, succedeva nel passato. Lo stesso mare
ghiacciato aveva bloccato il navigatore olandese Willem Barents
a queste latitudini a fine ‘500. I geografi dell’epoca
erano convinti che la via più breve per l’Oriente
passasse da settentrione invece che da sud; nei loro atlanti
la Siberia era molto meno estesa della realtà. Il sogno,
soprattutto per le potenze marinare del Nord, Inghilterra e
Olanda (Spagna e Portogallo avevano già trovato la via
verso est e scoperto le Americhe), era poter raggiungere la
Cina attraverso il Polo Nord, aprire un passaggio a nord-est.
Tra il 1594 e il 1596 Barents cercò il passaggio, ma
non riuscì a vincere la barriera dei ghiacci. Non riuscì
nemmeno a tornare, morì dopo aver svernato a 76°
nord, la prima volta per degli europei a una latitudine così
alta. Il resoconto dei suoi viaggi, pubblicato nel 1609, fu
un bestseller internazionale. Il frontespizio dell’originale
recitava: “Vera e perfetta descrizione dei tre viaggi,
così strani e meravigliosi che mai se ne udì l’uguale,
compiuti per tre anni di seguito dalle navi d’Olanda e
Zelanda sulle coste settentrionali di Norvegia, Moscovia e Tartaria
verso i regni di Cataio e di Cina”. I suoi racconti mirabolanti
delle gran quantità di balene, foche e trichechi avvistate
nei mari intorno a un’isola sconosciuta dalle “cime
aguzze” (che per questo aveva chiamato Spitsbergen) crearono
un enorme interesse, facendo decollare verso l’isola,
la principale di un arcipelago disabitato, la prima “corsa
all’oro” europea, l’oro dell’olio delle
balene. Gli inglesi arrivarono nel 1610, gli olandesi un anno
dopo, inaugurando una stagione di massacri (di balene, foche,
trichechi) e il popolamento delle Svalbard (come fu chiamato
l’arcipelago, in norvegese “coste fredde”).
Oggi le balene non ci sono, quasi, più. Solo negli ultimi
anni si è tornati ad avvistare, sporadicamente, qualche
esemplare di balena franca oltre alle beluga. Oggi, alle Svalbard,
a regnare è l’orso polare. Nell’area compresa
tra le Svalbard e la Terra di Franz Josef si stima che ce ne
siano 3 mila, quasi più degli uomini (alle Svalbard i
residenti sono 2.800). Nel corso dei secoli l’orso era
stato pesantemente oggetto di caccia; dal 1973 è sotto
tutela. In un opuscolo turistico di qualche anno fa c’è
una foto in cui si vede un orso appoggiato al parapetto di una
nave con un turista a non più di un metro intento a fotografarlo.
«Oggi un comportamento del genere sarebbe impensabile»,
commenta Christopher, una delle guide a bordo. «Gli orsi
possono attaccare improvvisamente e sono velocissimi, più
di noi. Non si scherza, l’orso polare è un predatore,
il più grande carnivoro esistente in natura. Qui si gira
armati». Alle Svalbard dappertutto ci sono avvisi di pericolo,
in cui si consiglia di munirsi di una propria arma se ci si
allontana dagli insediamenti principali. Nei tour c’è
sempre una guida armata che anticipa e copre gli spostamenti
dei visitatori. Osservare l’orso in azione è assistere
a una scena che qui si ripete da millenni. Dal ponte della nave
si avvista un maschio sul pack lontano in una baia ghiacciata,
intento ad avvicinarsi a una foca dagli anelli ignara del pericolo,
lo si segue con il cannocchiale fino al balzo finale, al ghiaccio
che si macchia di sangue, al pasto divorato in compagnia di
una coppia di uccelli che aspetta qualche resto. Un mondo antichissimo
e appartato, eppure in pericolo. Ricerche recenti avvertono
che, se le stime di scioglimento della banchisa polare dovute
al riscaldamento globale si confermassero, due terzi degli orsi
polari (la popolazione totale è stimata tra 22 mila e
27 mila esemplari) potrebbero scomparire da qui al 2050. Un
posto isolato, in una delle aree più remote del mondo.
Le Svalbard, disposte tra il 74° e l’81° parallelo
nord, sono «così lontane che sono fuori dalle mappe»,
afferma lo scrittore olandese Cees Nooteboom. Un mondo per il
60% sempre coperto da ghiaccio. Senza strade, a parte nei pochissimi
insediamenti (si gira in barca, motoslitta, elicottero, aereo),
o grandi segni di intervento umano. Per metà riserva
naturale, protetto dopo essere stato depredato. Situato nel
punto in cui c’è il maggior scambio di flussi d’acqua
tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Artico. Una natura
aspra di montagne, fiordi, baie, vallate, promontori, scogliere,
isolette, morene, ghiaccio eterno, tundra, addolcita dalla Corrente
del Golfo che bagna le coste e mitiga il clima. Abitata, oltre
che dagli orsi, da foche, trichechi, renne, volpi, sterne, ededroni,
gazze, gabbiani. E da ricercatori, studenti, minatori ... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Provenendo
da Canterbury e dalla Francia, nel Medioevo i pellegrini diretti
alla Tomba di Pietro attraversavano l'Italia lungo un fascio
di cammini noto oggi come Via Francigena, oltre 900 chilometri
dalle Alpi a Roma. Reportage (testo+foto) sul National Geographic
Italia del luglio 2009
Da mille anni è una casa senza chiavi. «Qui una
chiave non c’è mai stata», racconta frate
José, «né per la porta esterna, né
per le stanze». È primavera avanzata, ma sul colle
ci sono ancora metri di neve. Nell’aria pungente dei 2.500
metri di altitudine, arrivano alla spicciolata i viandanti di
oggi, ai piedi sci o ciaspole, più dal versante svizzero
che da quello italiano dove il pericolo di valanghe è
maggiore. Da millenni il Gran San Bernardo registra passaggi;
dai romani, che qui eressero un tempio per guadagnarsi il favore
degli dei, a Carlo Magno e Napoleone. Per la via che da nord
portava verso Roma, chiamata Francigena perché veniva
dalla terra dei Franchi. Oggi, il Gran San Bernardo segna l’inizio
del tratto italiano di quella via che, dopo più di 900
chilometri, porta alla Tomba di Pietro. Nel 1050, un monaco
fatto poi santo, Bernardo da Mentone, fondò sul colle
un monastero con annesso ospizio per accogliere chi transitava.
Mercanti, soldati, pellegrini, alla mercè di tempeste
e valanghe, fatica e briganti. All’inizio sottoterra,
in locali ricavati scavando la roccia. Oggi in camere e camerate,
con doppi vetri per non far passare freddo e vento. Porte aperte,
sempre. «A cristiani o no. Per noi dell’ordine di
Sant’Agostino, a cui Bernardo affidò l’ospizio,
è la vita umana e non la fede a essere decisiva»,
spiega frate José. «In passato», continua,
«ogni giorno due confratelli partivano dall’ospizio,
uno verso sud, l’altro verso nord, per soccorrere chiunque
potesse essere in difficoltà. Anche oggi la gente ha
bisogno di sguardi di accoglienza, sia chi crede sia chi ha
una vita interiore diversa». Una coppia - lei tedesca,
lui americano, mezza età, istruttori di danza - arriva
ansimante, zaini in spalla, e sale ancora più su, oltre
il laghetto ghiacciato. Cercano il punto giusto dove celebrare
la piccola cerimonia per cui sono venuti fin qui. In un’urna
a forma di piramide hanno le ceneri di Major, in una busta trasparente
quelle di Jadie, i loro due cani San Bernardo. Sono qui per
«farli tornare da dove venivano». I grandi cani
che hanno preso il nome dal colle arrivarono nel Settecento,
all’inizio addestrati per battere le tracce e ritrovare
con l’olfatto il cammino sotto la neve fresca, poi per
il recupero dei dispersi. Dagli anni Sessanta, con l’introduzione
dell’elicottero per i salvataggi, i cani San Bernardo
non sono più utilizzati perché troppo pesanti.
Li hanno trasferiti a valle; d’estate, per la gioia dei
turisti, ne portano su una decina, marketing oblige. Dal colle
passava chi proveniva da nord e, specularmente, chi risaliva
per andare al di là delle Alpi. Tra questi l’arcivescovo
Sigerico, che nel 990 viaggiò da Canterbury a Roma per
ricevere da Papa Giovanni XV il pallium, la veste di lana ornata
con la croce che ne simboleggiava l’investitura, e poi
annotò nel diario i luoghi delle sue 79 tappe lungo la
via del ritorno. Quel diario, oggi alla British Library di Londra,
ha costituito la base per individuare la direttrice geografica
di comunicazione tra la penisola e l’Oltralpe, la Francia,
che nel Medioevo significava anche parte della Germania. La
Via per questo chiamata Francigena è stata riconosciuta
nel 1994 Itinerario culturale europeo dal Consiglio d’Europa:
1.600 chilometri da Canterbury a Roma, passando per Francia
e Svizzera. Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
ha fatto realizzare la mappatura col Gps del tratto italiano
della Francigena, dal Gran San Bernardo a Roma, seguendo le
tappe di Sigerico. Un percorso a piedi, fattibile e il più
possibile in sicurezza, in un territorio di grande attrazione
naturalistica intriso di storia e arte ma fortemente antropizzato,
pieno di ostacoli, recinzioni, asfalto, traffico. Per Alberto
Conte, autore della mappatura ufficiale, «le antiche strade
non esistono più o spesso sono state rimpiazzate da quelle
moderne. Se oggi vogliamo rivivere qualcosa di simile al pellegrinaggio
di un tempo possiamo farlo ricreando le condizioni di tranquillità,
silenzio e, per quanto possibile, immersione della natura in
cui camminavano i pellegrini». L’ufficializzazione
del percorso ha creato controversie e malumori. Il cammino è
fatto da chi cammina non dai ministeri, ha rivendicato qualche
associazione; realismo, hanno risposto gli amministratori. Alla
fine un percorso ufficiale c’è e coesiste con le
sue variabili. La via stessa invita al relativismo. Era un organismo
vivo, in trasformazione continua. Dipendeva da guerre, alluvioni,
peste, clima, orografia variabile. Sottolinea lo storico medievalista
Franco Cardini che «nel Medioevo le vie non sono mai delle
vie consolari o delle autostrade, ma fasci di sentieri di ghiaia,
di terra battuta, che attraversano con molte varianti un territorio».
Intreccio e insieme di percorsi, più che linea, singolo
tracciato. «Lo spazio medievale», continua Cardini,
«è uno spazio che l’uomo medievale non vede,
come gli antichi romani o come noi, come qualcosa che si può
fendere per mezzo di una linea retta; ma lo vede come qualcosa
di fruibile per mezzo di un reticolo di vene e di arterie, che
ogni tanto ha qualche passaggio obbligato». Non una strada,
ma un sistema viario, un insieme di percorsi confluenti in alcuni
punti nodali: i porti, i guadi, gli incroci, i passi, le città
... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
La
storia di un uomo che ha scelto di vivere nella natura, a piedi
scalzi, e il luogo dove vive - la Val Grande - un parco del
Piemonte considerato la più vasta area wilderness d’Italia.
Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del gennaio
2009
Usa l’acqua delle sorgenti e la cenere dei fuochi per
lavarsi e pulire. Va scalzo, sempre, su qualunque superficie,
con qualsiasi clima, per recuperare il contatto diretto con
la terra. «La montagna è il mio guru, attraverso
le prove quotidiane mi insegna l’umiltà. Per rispetto
la calpesto a piedi nudi», racconta. Con il sole o il
freddo, la pioggia o la neve, si veste con poco o niente, «in
inverno mi copro soltanto la sera». Dorme per terra, in
un bivacco. Mangia bacche, funghi, piante o ciò che trova
abbandonato, recupera «gli avanzi degli altri»,
vive «di quel che la natura dà». Alterna
periodi di dialogo e apertura a periodi di digiuno e silenzio,
ormai familiare agli animali, che quasi non scappano più
davanti a lui, e altro dagli uomini che avverte arrivare per
l’odore del sapone sopra la pelle, del detersivo sugli
indumenti che il suo olfatto percepisce a distanza. Lo chiamano
il selvatico, l’eremita, l’uomo del bosco. 53 anni,
milanese, un’infanzia difficile trascorsa tra collegi
duri e nonni impietosi, ex-autista di scuolabus, Gianfry («così
mi chiamavano i ragazzi che accompagnavo») da undici anni
ha scelto di vivere in Val Grande, Piemonte settentrionale,
fra il Lago Maggiore e la Val d’Ossola. Parco nazionale
da quindici anni, la Val Grande è considerata la più
estesa area di wilderness d’Italia, oltre che dell’intero
arco alpino: la più grande porzione di territorio nazionale
senza presenza umana, strade, insediamenti permanenti. Un mondo
a parte, a 100 chilometri da Milano, dove la natura ha ripreso
lentamente il sopravvento dopo l’abbandono post-Seconda
Guerra Mondiale ...
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
In
Etiopia, culla dell’umanità,
con una delle più alte percentuali di ciechi e
ipovedenti al mondo, due organizzazioni
non profit italiane costruiscono pozzi, sostengono
scuole e ambulatori. Reportage (testo+foto) sul National
Geographic Italia del novembre 2008
Abel e Semira
sono seduti al loro banco, uno accanto all’altra.
Giocano, parlano fitto. Lei ha 6 anni, lui 8. Sieropositivi
dalla nascita. Affetti da glaucoma, non vedono più.
Semira è vivacissima, sempre in movimento, con
la testa che si sposta di continuo per seguire ogni rumore
che percepisce, quasi a voler catturare tutte le informazioni
che la vista non le può più restituire.
Sorride, fa smorfie, poi si placa improvvisamente, diventando
seria. I suoi occhi sono enormi e vuoti perché,
in assenza di liquido interno (l'umore acqueo) a sufficienza,
la pressione oculare aumenta, l’occhio si dilata,
la cornea si opacizza. Le mani sono il suo terminale sensitivo,
giocano con mattoncini di plastica, imparano a leggere
in braille: l’indice della mano sinistra sposta
quello della mano destra che legge. «Il sinistro
funziona come un cursore, il destro come uno scanner»,
sintetizza un maestro che segue un paio di allieve più
grandi in grembiule blu. Nata venti anni fa, tra baracche
e palazzi del cuore di Addis Abeba, la scuola integrata
primaria della German Evangelical Church ospita bambini
non vedenti e ipovedenti tra bambini normodotati, che
imparano il braille, si affacciano all’uso del computer
con programmi ad hoc, giocano con gli altri nel cortile
della scuola, provano a non essere troppo diversi. Una
cinquantina di bambini dai 5 ai 12 anni, provenienti da
famiglie molto povere, affetti soprattutto da glaucoma
congenito e opacità corneali da avitaminosi A.
Per chi riesce a scorgere qualcosa, magari solo ombre,
forme, chiarori, ma anche per i ciechi assoluti, meglio
mischiarsi con chi vede che il ghetto isolato delle scuole
speciali. Ad Addis Abeba sono giorni di orgoglio. Le celebrazioni
del millennio - in Etiopia, che continua a seguire il
calendario giuliano, il secondo millennio si è
chiuso solo l’11 settembre - sono finite. Una settimana
prima del passaggio al proprio 2001, il paese ha festeggiato
solennemente il ricollocamento dell’obelisco di
Axum, la stele antica 1700 anni restituita dall’Italia.
Ma l’onda lunga delle vittorie in serie alle Olimpiadi
di Pechino continua. Nella capitale un ospedale in costruzione
è stato battezzato con il nome di Tirunesh Dibaba,
la mezzofondista che ha realizzato la doppietta su 5 e
10 mila metri; mentre una strada è stata intitolata
a Kenenisa Bekele, anch’egli capace di vincere a
Pechino 5 e 10 mila metri, non lontana da quella che porta
il nome del mostro sacro dell’atletica Haile Gebresilassie,
che il 28 settembre ha stabilito a Berlino il suo ennesimo
record del mondo (il 26° della sua carriera), questa
volta della maratona. Orgoglio e sofferenza. I luccichii
dello sport e della gloria passata (Etiopia culla dell’umanità,
unico paese africano mai del tutto colonizzato, dal cristianesimo
fiorente prima ancora del suo arrivo in Europa) e i punti
di crisi del presente ...
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Nella
capitale culturale degli arbëreshë,
gli italiani di lingua albanese, si celebra ogni anno
un festival musicale, "piccola Sanremo d'Arberìa",
occasione di identità. Reportage (testo+foto) sul
National Geographic Italia
dell'ottobre 2007
I fiori sul palco sono di plastica,
tutto il resto è vero. Le vallette, strette nei
loro tubini, che consegnano targhe ricordo; i bravi presentatori
che annunciano canzoni e ringraziano sponsor; le nuvole
di fumo che fanno atmosfera. È passata mezzanotte
nell’anfiteatro comunale di San Demetrio Corone,
di una notte d’agosto chiara e con un bel vento
che rinfresca l’aria e fischia nei microfoni (San
Demetrio è al terzo posto tra i paesi più
ventosi d’Italia). Gennaro De Cicco, professore
di francese, allenatore della squadra di calcio locale,
corrispondente di La Provincia, conduttore da sempre del
Festival della canzone arbëreshe, proclama il vincitore.
Applausi, grida, un gruppo di fan invade la scena, poi
riparte la base musicale e Claudio La Regina riprende
il suo canto contro ogni violenza sui bambini. Quest’anno,
ventiseiesima edizione del festival, i chiaroscuri della
realtà sono più presenti nelle canzoni in
gara, tutte rigorosamente in arbëresh, la lingua
della diaspora albanese, o shqip, la lingua dell’Albania.
Emigrazione clandestina e guerre, venti di pace e profumi
d’oriente, la tristezza delle partenze e il desiderio
del ritorno, a casa, alla propria terra, quella d’origine
o la nuova. Filone prevalente il melodico sentimentale
(sole-cuore-amore), ma c’è spazio anche per
le nuove tendenze: cori polifonici, orchestre samba-jazz,
monologhi rap ...
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
La
civilità delle Ville Venete,
da Petrarca ai proprietari di oggi, ultimi castellani
d'Italia. Reportage (testo+foto con Alessandro Barteletti)
sul National Geographic Italia
del giugno 2007
Per alcuni che la abitano è
un mostro, una bestia; per altri una nave, una baracca,
la “cosa”. Dotata di anima e forza propria,
presenza onerosa che può stritolare, indifferente
alle vicende umane che la attraversano, che si continua
eppure ad amare, carica com’è di storie,
vissuti, bellezza. La villa veneta è forma mirabile
e presidio sul territorio, funzione (all’origine
agricola) e ricerca (estetica), fulcro di un sistema così
strutturato, e qualificante una società, da costituire
nel tempo una civiltà. Per accostarsi a questo
universo, bisogna tornare indietro. Riandare al cambiamento
di orizzonte culturale che si produce nella seconda metà
del Trecento, quando Petrarca abbandona Padova per andare
a vivere tra i Colli Euganei. Fino ad allora, per gli
uomini del Medioevo - che vivevano in città - la
campagna era qualcosa di ostile da evitare, la “selva
oscura” dove Dante si perde. Petrarca, con l’occhio
lungo del poeta, rompe questo schema, si ritira in campagna,
vive nella natura e la modifica pure perché si
ingegna a fare il contadino. Con lui ha inizio il ritorno
agli ideali classici della vita agreste, prende forma
l’ideologia che serve al movimento ampio che si
prepara. Con l’avanzata ottomana e la scoperta dell’America,
Venezia perde centralità: smarrito il suo mare
si volge verso terra. Si espande, espropria e acquista
terreni, li trasforma anche grazie a un intelligente governo
delle acque, impone la pax veneziana rendendo sicuri i
luoghi conquistati. Costruisce presidi, aziende, abitazioni.
Le ville sono l’emblema della riorganizzazione della
potenza della Serenissima, l’avamposto della trasformazione
del territorio. L’elogio petrarchesco legittima
la campagna come luogo di armonia con la natura, spazio
di produzione e di rappresentanza, più tardi anche
di meditazione e di villeggiatura nella bella stagione.
A metà del Cinquecento Andrea Palladio, scalpellino
e poi architetto, diventa l’interprete massimo di
questi bisogni, dando vita con il suo genio a ville concepite
per aristocratici che devono stare in campagna per produrre.
«Come tutti i grandi architetti, Palladio è
colui che realizza i sogni dei suoi committenti»,
spiega Guido Beltramini, storico dell’architettura,
direttore del Centro internazionale di studi di architettura
(Cisa) Andrea Palladio di Vicenza. «La rivoluzione
palladiana è aver saputo tradurre in forma architettonica
queste esigenze, trasformando elementi funzionali già
esistenti: la casa e le adiacenze, i giardini».
Grazie a Palladio che crea un sistema di regole, basate
su numeri e proporzioni, aperto, riproducibile, la villa
veneta assume la sua forma matura, poi molto imitata.
Gli epigoni saranno molti, anche all’estero dove
la fortuna del Palladio è immensa. Gli esempi nel
mondo di edifici di ispirazione palladiana sono infiniti:
dall’Inghilterra del Seicento e Settecento alla
Russia di Caterina II, dalle plantation houses americane
del genere Via col Vento alla stessa Casa Bianca di Washington,
fino ai parlamenti irlandese e indiano e a palazzi sparsi
in Brasile o a Shanghai. Insieme a Howard Burns (palladianista,
presidente del comitato scientifico del Cisa) Beltramini
ha curato due anni fa una splendida mostra dal titolo:
“Andrea Palladio e la villa veneta, da Petrarca
a Carlo Scarpa” e cioè dal Trecento alle
opere dell’architetto veneziano scomparso nel 1978.
Se il fenomeno propriamente detto delle ville venete è
collocabile tra il Cinquecento e il Settecento, l’orizzonte
temporale della civiltà delle ville venete è
più vasto e arriva ai nostri giorni. L’Istituto
regionale delle ville venete ha censito oltre quattromila
ville tra Veneto e Friuli (per il 90% di proprietà
privata, per il 50% immobili monumentali vincolati), un
sistema di beni culturali straordinario ma problematico.
Andando in giro per le trafficatissime arterie che intersecano
la pianura e si inerpicano su colli e pendici prealpine,
si realizza come la bellezza sia ancora diffusa (dal 1996
le ville venete sono entrate a far parte della lista del
Patrimonio mondiale dell’Unesco), pur incalzata
dalla modernità. «La battuta facile»,
per il direttore del Cisa, «sarebbe dire che il
Veneto è passato dalla civiltà delle ville
a quella delle villette geometrizie. Non dimentichiamo
che il Veneto ha dato sei milioni di emigrati nel Novecento.
Le ville sono la memoria del dominio perduto di Venezia.
I contadini dopo la guerra arrivavano a demolirle e i
piani regolatori fino agli anni ’80 non le hanno
rispettate molto. Ma qualcosa dopo i tempi magri sta cambiando:
la villa è radice e matrice di identità»
... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Dopo
undici anni di restauro, riapre la Cattedrale di Noto,
capolavoro del barocco. Reportage (testo+foto) sul National
Geographic Italia del marzo 2007
Undici anni fa il crollo. Un pilastro
riempito di pietre di fiume collassò e per effetto
domino trascinò con sé altri piloni, facendo
precipitare la copertura della navata centrale e gran
parte della cupola. Era la notte del 13 marzo 1996, cinque
anni dopo il terremoto che aveva colpito la Sicilia sud-orientale.
Fu un miracolo, secondo molti, che nessuno rimase sotto
le macerie alte cinque metri. Per Agatina Trigona, Marchesa
di Cannicarao, Baronessa di Frigintini, nobildonna di
Noto, «il vero miracolo il Padreterno lo fece facendo
crollare la cupola. È stata la migliore pubblicità
per Noto, prima scordata da tutti e poi finalmente riscoperta».
Dalla distruzione, la rinascita; come dopo il terremoto
del 1693 che annientò Noto antica (la scossa, a
cui gli esperti assegnano oggi un’intensità
pari all’undicesimo grado della Scala Mercalli,
rase al suolo in pratica l’intera Sicilia sud-orientale).
Allora, dalla ricostruzione, sorsero splendide città
edificate in stile barocco, di cui Noto è ritenuta
la “capitale”. Nel 2001 il cosiddetto “barocco
del Val di Noto” è stato inserito dall’Unesco
nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità.
Questa volta il crollo della Cattedrale ha fatto convogliare
attenzione e fondi nazionali, regionali, europei. Da una
decina d’anni la cittadina vive in una condizione
di continuo restauro. Anche Palazzo Trigona, uno dei più
prestigiosi di Noto, è un cantiere. Nel salone
delle feste, al piano nobile, tra scarpe, valigie, strumenti
musicali, cravatte e vestiti da sera accatastati alla
rinfusa per ripararli dai lavori che invadono gli altri
locali, sotto la volta dai delicati affreschi settecenteschi,
la baronessa e il suo compagno raccontano di feste da
ballo alle due del pomeriggio («perché si
viveva al ritmo del sole e si andava a dormire al tramonto»),
di passaggi di registi e re: Antonioni e Zeffirelli, che
a Noto girarono L’Avventura e Storia di una Capinera,
e Ferdinando di Borbone, che veniva spesso a caccia in
Sicilia, allora ricchissima di boschi, («era un
cacciatore in due sensi, pure di giovane signore»)
e si fermava nel loro palazzo ... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|