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Interviste
a... |
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Di seguito sono riportati alcuni brani estratti da interviste
realizzate nel corso degli anni. Chi fosse interessato
al testo completo di qualche intervista in particolare
può scrivere a: apolitano@artsrl.it |
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Tahar Ben Jelloun, scrittore
franco-marocchino, sempre in movimento attraverso
due culture, la maghrebina di origine e l'europea
di approdo, sul viaggiare, Ibn Battuta, le Colonne
d'Ercole.
"… Amo molto viaggiare. Sono in viaggio sempre, quando
leggo, scrivo, vedo un film. Anche quando incontro
un'altra persona; è una forma di viaggio, viaggio
in un essere umano. D'altra parte oggi i viaggi sono
diventati così frequenti, che si ha a volte l'impressione
di trovarsi in una specie d'isteria, di non avere
più il tempo di assaporare il piacere dei luoghi.
Non si ha più nemmeno il tempo di realizzare che si
sta andando dall'altro lato dell'Atlantico che si
è già arrivati. Viaggiare è diventato una sorta di
conferma di idee che ci siamo fatti su un luogo che,
visitandolo, verifichiamo se corrispondono effettivamente
a realtà. Mi sembra che non ci sia più scoperta o
che ce ne sia sempre di meno. Bisogna però dire che
ci sono persone che non si servono totalmente dei
comfort di oggi, e che fanno viaggi a piedi o a cavallo,
attraverso deserti o montagne, che arricchiscono molto
di più del prendere semplicemente un aereo, scendere
in un albergo come tutti, partecipare a un viaggio
organizzato, senza gioire in fondo di nessuna sorpresa
…"
Walter Bonatti, figura mitica dell'alpinismo internazionale,
sulla spedizione italiana al K2, su scalate in gruppo
e solitarie, colleghi e sponsor, esperienze e conoscenza
di sé.
"… L'alpinismo è un gioco e come tutti
i giochi ha certe regole. Se ci si vuole misurare
con le difficoltà, bisogna vincerle non demolirle,
a differenza di quanto accade oggi grazie alle nuove
tecniche di arrampicata, agli apparecchi radio e ad
altri bip-bop di turno. L'alpinismo non decade se
fatto in un modo che esalta e soddisfa la curiosità,
la lotta, la ricerca, la dimensione umana che c'è
in noi. L'alpinista è solo un modo di essere uomo,
sensibile, coerente, rispettoso di sé, degli altri
e dell'ambiente che ci circonda …"
Giuseppe
Cederna, attore
e viaggiatore, sulla sua ascensione del Monte Kenya
sulle tracce di Felice Benuzzi, che nel 1943 evase
da un campo di prgionia inglese per il gusto di scalarlo.
"… Il monte Kenya è un luogo che ha un
fascino particolare, una montagna che è una specie
di ossessione perché non la vedi mai. Anch'io la prima
volta, tanti anni fa, avevo visto solo nuvole. Poi
avevo letto un libro. A me piace molto quando i viaggi
partono da storie, da libri, e poi seguono le orme
di qualcuno. Otto anni fa me ne aveva parlato per
la prima volta Enzo Monteleone, per farne un film.
Fatto poi dagli americani, bruttissimo. L'anno scorso
volevo fare un viaggio, ne avevo il tempo, e il monte
Kenya è diventato non più un sogno improponibile perché
c'era il tempo necessario per prepararlo. Ho riletto
il libro e, oltre che viaggiatore, mi sono sentito
come un attore che aveva un copione. L'attore cosa
fa? Si prepara, legge il copione, si emoziona se il
copione gli piace, incomincia ad allenarsi, a vedere
cosa fanno i personaggi. E finalmente il viaggio si
è messo a fuoco, abbiamo comprato l'attrezzatura,
abbiamo corso per un mese e mezzo, siamo andati a
sciare per una settimana sopra 3000 metri. Il monte
Kenya è un piccolo mondo di 5200 metri. E 5200 metri
sono molto alti. Noi siamo abituati a pensare o al
niente, i 2000-3000 metri delle Alpi o agli 8000 degli
eroi. In mezzo c'è una quantità di avventure che per
gli uomini medi, normali come noi, sono grandi avventure.
La quota è impegnativa e ci sono venti vie diverse
per andar su. Noi abbiamo scelto quella di Benuzzi
..."
Domenico De Masi, sociologo attento alle tematiche di turismo e tempo
libero, su "la tribù che siamo noi" (dal punto di
vista del samoano Tuiavii di Tiavea), ozio, mondo
globalizzato, culture altre.
"… Viaggiare era parte integrante della vita aristocratica,
poi è passato a far parte integrante della vita borghese.
Accade alla fine dell'800 con l'arrivo di mezzi come
il treno e si è sviluppato poi con l'aereo. Oggi 900
milioni di persone hanno 40 giorni di ferie e di questi
almeno la metà li trascorre viaggiando o comunque
spostandosi per raggiungere le località delle ferie.
Il viaggiare è quasi una condizione stabile dell'essere
umano: si viaggia per lavoro o per turismo, c'è il
turismo religioso, quello sessuale, il turismo di
svago. Tutti i vari motivi che ci portano a essere
irrequieti sono compresenti. A questo ci si è aggiunto
un fatto nuovo da circa dieci anni: il viaggiare virtuale,
tramite Internet. Siamo degli esseri viaggianti, la
stanzialità è completamente sopraffatta dal movimento
…"
Luciano Del Sette, giornalista, su come si va alla scoperta di una città,
su come la si racconta, che propone cinque criteri
di una possibile mappa da tenere in tasca accostandosi
a una città.
"... Il primo criterio è perdersi, perché
se ti perdi scopri comunque cose che le direttrici
classiche del viaggiare non ti permettono di assaporare.
Non noti i dettagli, non ti infili in posti sbagliati
che ti costringono a fare giri viziosi che la guida
tende magari a risparmiarti. Rispetto a una grande
città come Roma, per esempio, l'equivoco è che esista
solo la Trastevere che va da Viale Trastevere a Santa
Maria mentre ne esistono molte altre completamente
diverse. Il secondo criterio, che usano molto i turisti
stranieri, è il naso all'insù. Perché la città a misura
di altezza media ti ingabbia comunque dentro uno spazio
fisico, invece il guardare su ti fa scoprire valori
differenti, dal particolare del balcone a come il
cielo si combina con il gioco delle luci, al materiale
delle case, alle terrazze ..."
Umberto Galimberti, psicoanalista e filosofo, su "l'etica del viandante",
senza meta e punti di partenza e arrivo che non siano
occasionali, riferimento di un'umanità a cui la tecnica
consegna un futuro imprevedibile.
"… La metafora del viaggio è valida non
solo per uscire dall'abituale, incontrare l'insolito,
esporsi a ciò che non abbiamo previsto. Per me diventa
addirittura un'etica, l'etica del viandante, una sorta
di paradigma per l'uomo contemporaneo. Finora abbiamo
avuto delle etiche che si muovevano all'interno di
paesaggi stabili. Oggi ci troviamo nella condizione
di dover continuamente rincorrere delle assolute novità:
si può clonare, si può dare l'utero in affitto. Per
cui non è più possibile un'etica in un paesaggio stabile.
Bisogna fare come i viandanti. Cosa fanno i viandanti?
Camminano, non hanno in vista una meta, e incontrano
il fiume, la montagna, risolvono cioè la contingenza
di volta in volta. Fanno i conti con la differenza,
sanno aderire ai paesaggi e dire addio. Il viaggio
diventa la grande metafora del risolvimento della
contingenza, in un paesaggio sconfinato, che non ha
confini determinati per cui sono conoscibili delle
etiche stabili ..."
Stefano Malatesta, giornalista-scrittore, su presenze, memoria, protagonisti,
paesaggi di deserti sahariani o arabici, asiatici
o sudamericani, "posti vuoti" pieno di cose e storie,
uomini blu, militari, avventurieri.
"… Posso dire di conoscere bene alcuni
deserti. In Africa, quello libico, quello egiziano,
quello somalo; e poi altri, come l'Atacama, in Sudamerica,
o il Taklamakan, in Asia. Adesso hanno fatto del deserto
un'altra destinazione turistica, si vedono gruppi
turistici che ci vanno come andassero in Costa Smeralda.
Ma solo nel '900 viene preso a modello come qualcosa
di bello. Prima era l'inferno; era l'oasi il paradiso.
Ma il deserto è una cosa abominevole. Tutte le descrizioni
del deserto dei grandi viaggiatori ne parlano come
di una cosa mostruosa, abitata non a caso dai demoni;
infatti non a caso gli antichi cristiani andavano
nel deserto per incontrarli, solo i demoni potevano
abitare solo un luogo così spaventoso. Adesso c'è
questa formula estetizzante che praticamente annulla
il cuore di piombo del deserto che è la paura. Il
fascino del deserto stava esattamente nella paura.
Attraversavi il deserto, ma eri attanagliato dalla
paura. Era lì il fascino, un fascino pericoloso. Ora
non più, il fascino se ne è andato. È rimasta la buccia
esterna, col satellitare ti vengono a prendere dove
ti pare …"
Reinhold Messner, alpinista, il primo a conquistare senza ossigeno tutti
i 14 ottomila della Terra, scrittore, sull'andar per
montagne, spirito dell'alpinismo, spedizioni e sponsor.
"… Io, dopo l'alpinismo, ho fatto avventura.
E rimango un avventuriero, quando prima o poi non
avrò più la capacità fisica per esserlo farò altre
cose. Sono un esploratore del limite, io. E non mi
interessa neanche essere il primo a conquistare questo
o quello, mi interessa solo stare fuori e fare esperienza
…"
Renata Pisu, giornalista e studiosa di paesi e culture orientali,
su Transiberiana, Cina, Giappone, India, dovere di
raccontare quel che si vede, odore dei luoghi, nostalgia
e incontri.
"… Il mal di Cina è come il mal d'Africa.
È una perenne continua nostalgia. Ma di cosa non si
sa. Anche se lo chiedi a chi ti parla di mal d'Africa
non sa rispondere. Si potrebbe dire della nostalgia
del "come eravamo", ma sarebbe troppo semplice. Secondo
me si può avvicinare più al dolore del ritorno, nostalgia
significa proprio questo etimologicamente. Però non
è tanto il dolore del ritorno, non è tanto il pensiero
della giovinezza, ma è anche la registrazione dolorosa
e intensa delle mutazioni non solo personali ma dei
luoghi. E credo che, negli ultimi decenni, non ci
sia stato luogo che sia mutato così tanto come la
Cina. Il mal di Cina può essere anche un piacere,
fatto del suono della lingua, degli odori, dei sapori,
delle espressioni. I luoghi contano, ma sempre in
quanto luoghi abitati, fatti dal flusso continuo degli
uomini, dai gesti. È l'umano che mi interessa. Sebbene
gli incontri non siano sempre piacevoli, possono essere
anche ostici, metterti in posizione difficile, creare
shock culturali …"
Hugo Pratt, disegnatore, narratore, creatore di Corto
Maltese, sui Mari del Sud, terre e acque attraverso
cui si muoveva spesso per approfondire le sue ricerche
e rendere omaggio ai suoi miti.
"… Le immagini del Pacifico sono entrate
nella mia fantasia a Venezia, quando avevo 6 o 7 anni,
tramite le figurine della Liebig. Erano disegni bellissimi,
curati nei dettagli, pieni di paesaggi esotici e personaggi
incredibili. Più tardi ho scoperto il fascino delle
carte geografiche, degli atlanti, del viaggio, e la
mia immaginazione ha iniziato a riempirsi di tutto
un mondo incantato legato a quei nomi - Oceania, Micronesia,
Polinesia - che già di per sé suonavano dolcemente
e misteriosamente invitanti. Più tardi cominciai con
le letture, dall'"Isola del tesoro" di Stevenson ai
"Racconti dei mari del sud" di London; e quindi con
i film, come "Tabù" di Murnau o il primo "Bounty".
Le storie, i loro personaggi si mescolano con la realtà
dei fatti accaduti nel Pacifico, gli esploratori che
l'hanno percorso, i velieri che hanno dominato le
sue onde e quelli che sono finiti contro le scogliere
…"
Alberto Salza, antropologo, su diversi possibili sensi
del viaggiare, "persone dell'ecosistema" e "uomini
della biosfera", glocalizzazione, andare a piedi,
genti d'Africa, steppe dell'Asia centrale.
"… L'antropologo è il peggior ladro del
mondo: ruba cultura. Più che essere preso dal sacro
fuoco del viaggiare, è obbligato alla fuga, specchio
convesso del viaggio. Scappa da se stesso e dai suoi
affini (sindrome dell'"ho visto cose che voi umani
non potreste immaginare") e, dopo fugaci (per quanto
prolungati nel tempo) incontri con gli alieni, quasi
amori clandestini, riscappa verso casa con i brandelli
di interi mondi. In pratica, da antropologo, non parto
mai: faccio vita di movimento. Oggetto del mio studio
non è l'Uomo in sé, quanto piuttosto il suo "capitare"
nel mondo. Attualmente mi sto occupando di antropologia
quantistica: la coscienza dell'individuo pare funzionare
secondo fenomeni quantici, per mezzo di operatori
logico-probabilistici (come le particelle elementari
del multiverso fisico), mentre i gruppi e le culture
seguono strutture empirico-deduttive. Ho capito così
che l'universo non è fatto di particelle, ma di storie
a grana grossa e fine: il mio movimento è verso le
storie. Nell'andare si incontra di tutto e non si
ricerca niente. I paesaggi? Chi, come me, si muove
"lungo sentieri spaventosi, come quelli si presume
esistano sulla Luna" (Rimbaud, lettera a casa dalla
Dancalia), sa che non può scegliere: l'unico metodo
è il destrutturarsi e divenire parte del panorama,
in forme sempre diverse. Poi, un attimo prima del
ritorno, occorre rimettere i cocci assieme, ogni pezzo
un paesaggio fisico e mentale. In realtà, come per
le donne, mi piacciono i paesaggi secchi …"
Luis Sepulveda, "narratore di storie" cileno, scrittore di gran successo,
su frontiere e avventure, natura possente e luoghi
alla fine del mondo, orizzonti e confini non solo
geografici, favole e impegno politico.
"… La Patagonia, la Terra del Fuoco, l'Amazzonia
e il mare rappresentano la possibilità di confrontarsi
con la solitudine, di misurare se stesso. Mi sono
sempre piaciute le sfide e ogni volta che visito questi
luoghi mi confronto con sfide nuove. L'enorme estensione
della Terra del fuoco e della Patagonia mi insegna
che l'avventura umana è la più bella di tutte le avventure,
che la sete di vivere mostrata dalla gente che vive
in climi rigidi li nobilita e dona uno strano e grande
senso alle loro vite. È proprio in queste estensioni
battute dal vento che ho incontrato i più grandi esempi
di solidarietà e fraternità. In Patagonia c'è un abitante
ogni 18 chilometri quadrati e la parola straniero
non esiste. Non esistono stranieri, perché sono, siamo
tutti stranieri, un insieme straordinario di culture
e nazionalità diverse, di immigrazione portentosa
arrivata da tutto il mondo. E imparo sempre qualcosa
di nuovo, perché il vero viaggiatore è sempre un uomo
disposto a imparare. La prima volta che ho visitato
la Terra del fuoco avevo diciassette anni, ero molto
forte, vigoroso, però non avevo nessuna esperienza.
L'ultima volta avevo quarantacinque anni, non ero
né tanto forte né tanto agile, ma una grande esperienza
di vita mi ha insegnato a misurare ed economizzare
le forze …"
Padre Alex Zanotelli, missionario a più riprese in Africa, ex-direttore di
Nigrizia, oggi esponente dei movimenti della società
civile, su Nord e Sud del mondo, rispetto delle culture,
sviluppo sostenibile.
"… Il turismo in Africa ha portato ben
poco; anzi, ha distrutto. Ha arricchito le grandi
compagnie turistiche. Ad esempio in Kenya, nei grandi
hotel di Mombasa o Malindi, buona parte del cibo viene
da fuori, dall'Europa, dall'America; l'unica cosa
che viene usata localmente è la manodopera pagata
a basso prezzo. Il turismo lascia disastri culturali.
Negli anni Ottanta, per esempio, da Monaco partivano
uno o due aerei mensili diretti sulle coste del Kenya,
etichettati come "sexplains", cioè aerei per sesso.
Il disprezzo che il turista ha, i modelli che esporta,
diventano lentamente una maniera per distruggere valori,
culture, è questa la tragedia del turismo non solo
in Africa ma ovunque. Si parla spesso di turismo responsabile,
so che ci sono vari tentativi in atto, anche belli,
ma di turismo responsabile si potrà parlare solo quando
andremo all'altro con la capacità di metterci umilmente
al suo ascolto, per uno scambio: solo così il turismo
diventerà davvero responsabile e non un'altra arma
per distruggere culture e civiltà nel Sud del mondo
…"
Ferdinando Scianna, fotoreporter, corrispondente e inviato
speciale, primo italiano a entrare nello straordinario
gruppo di fotografi membri dell'agenzia Magnum Photos,
uno dei fotografi italiani più conosciuti e quotati.
"… Certi luoghi, l'ho scoperto a poco a
poco, mi interessano perché vi ritrovo le atmosfere,
i modi di vita della mia infanzia. Altri perché stimolano
il mio gusto per la surrealtà. Non amo l'orrore e non
amo il mondo patinato. Anche dove c'è dolore e fatica
cerco di portare uno sguardo fraterno, solidale. Non
credo più né alle denunce, che sono diventate anche
loro un genere, né alla pura contemplazione della bellezza.
Il Sudamerica mi affascina molto per i paradossi che
l'innesto del cattolicesimo vi ha provocato, come in
Sicilia. Credo di non avere capito niente del Giappone.
Ero troppo giovane quando ci sono andato. Vorrei andare
a scoprire qualche pezzettino di Cina. Non ci sono mai
stato. Ma la cosa che continuo a volere fare e a rimandare
è un viaggio vero in Italia. Un viaggio non turistico.
Ne vedo assai pochi …" |
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Piero
Boitani, tra i massimi esperti di Ulisse (non solo) in Italia,
sull'Odissea, archetipo di ogni narrazione (anche
di viaggio), e il multiforme Odisseo, padre di tuti
gli erranti d'Occidente.
"… La geografia dell'Odissea ha due punti
fermi. Uno è Troia, nell'Asia minore, quasi sullo
stretto dei Dardanelli; e l'altro, Itaca, sulla costa
ionica della Grecia. Il problema è che nel momento
in cui Ulisse lascia Troia, si inoltra man mano in
una geografia sempre più immaginaria e mitica. Per
esempio quando naufraga a Cariddi, quindi in teoria
nello stretto di Messina, da lì viaggia per nove giorni
verso l'isola di Ogigia, che è il cosiddetto ombelico
del mare, identificata con Gozo, al centro del Mediterraneo.
Alcuni l'hanno invece identificata con Ceuta, vicino
Gibilterra. Altri ancora nel mezzo dell'Atlantico:
una tradizione raccolta da Joyce sostiene per esempio
che Ogigia sia l'Irlanda; altri ancora sostengono
addirittura che sia l'Islanda …"
Duccio Canestrini, antropologo-saggista, attento alle tematiche dell'impatto
dei flussi turistici, su culture indigene, turismo
sostenibile, possibili atteggiamenti touristically
correct.
"... Purtroppo l'andare massificato del
turismo industrializzato, che relega le vacanze a
venti giorni di altrove organizzati e standardizzati,
lascia poco spazio all'incontro con l'altro. Vieni
a essere vittima di stereotipi dei quali non riesci
nemmeno a scrollarti nonostante le tue migliori volontà
perché è proprio la brevità delle vacanze che ti toglie
la possibilità di relazionarti umanamente in termini
accettabili. D'altra parte c'è una predeterminazione
nel tuo modo di viaggiare che ti condiziona: lo storico
ti dice che quando incontri l'indiano non sei tu che
incontri l'indiano, ma è la tua civiltà che incontra
l'altra civiltà; dietro c'è il colonialismo inglese,
le norme, i traffici. Tu sei determinato, nei tuoi
rapporti, dalla storia; un condizionamento di cui
ognuno ha anche voglia di liberarsi ogni tanto con
uno scrollone per sentirsi capace di relazionarsi
da uomo a uomo. E allora ci provi e magari l'indiano
ti dice "italiano-paolorossi" e tu ci resti da cane
e nonostante la tua buona volontà ti senti un walking
wallet, come dicono gli inglesi, un portafoglio che
cammina e chi se ne frega delle tue buone intenzioni
di bianco che ha avuto i soldi per venire qui. È una
continua oscillazione: da una parte c'è il peso della
storia, dall'altro la legittima aspirazione a relazionarsi
tra esseri umani per cui ti può anche andare bene,
puoi anche trovare delle amicizie, puoi riuscire a
guardare negli occhi una persona e a essere onesto
nei limiti appunto di questa costrizione che è data
dalla brevità del contatto e dalla disparità geografico-economica
…"
Paolo Conte, funambolico poeta della canzone d'autore italiana,
su straniamenti geografici e sentimentali, avventurieri
di provincia e città, Langhe e Parigi, Bar Mocambo,
Afriche e Sudameriche.
"… Quando viaggio mi capita di fissare
la tinta di fondo, quella dominante, del paesaggio
che incontro. Così come mi viene istintivo di toccare
con le mani la terra per sentirne la consistenza e
l'essenza. Se attraverso luoghi che sono stati abitati
dagli Etruschi (anche se non so niente di quel popolo),
mi viene istintivo sentirne ancora una specie di presenza
nei colori tutti magnetici del cielo e dei terreni.
Paradossale: ho provato queste sensazioni "etrusche"
a San Francisco, in una sua ambiguità climatica e
nella qualità di certi suoi silenzi ..."
Staffan
de Mistura, che in più di trent'anni di impegno all'interno del
sistema Onu ha ricoperto molti incarichi speciali,
sullo stato del mondo visto con gli occhi delle Nazioni
Unite.
"... Se da una parte il mondo è diventato
molto più piccolo, una sorta di villaggio in cui si
comunica e si viaggia estremamente in fretta, dall'altra
c'è una porzione di mondo che non ha accesso a questo
sviluppo ed è come se avesse fatto in realtà dieci
passi indietro. Perché se prima doveva prendere un
treno e non aveva nemmeno la possibilità di salire
su una bicicletta, prendere oggi un aereo sembra una
possibilità ancora più remota. E lo stesso discorso
vale anche per internet e la dimensione digitale.
Che il mondo sia diventato più piccolo lo dimostra,
in negativo, anche l'epidemia di una malattia come
l'Aids, che ha travolto ogni frontiera immaginabile,
etnica, religiosa, geografica. Questo stesso mondo
avrebbe bisogno, invece, di allargarsi in quanto a
capacità di intervenire e applicare rimedi su scala
globale, ma non lo fa: il caso classico è il costo
altissimo di alcuni medicinali che potrebbero ritardare
enormemente il progredire dell'Aids (tanto che si
potrebbe sperare di riuscire a scoprire, nel frattempo,
un rimedio definitivo della malattia) e che sono inaccessibili
proprio per chi è più colpito dall'epidemia, come
la popolazione africana ..."
Ernesto Ferrero, scrittore, editore, cultore di Emilio Salgari, sul
mito del Capitano che non viaggiò (quasi) mai, su
Sandokan, Mompracem, Malesia, senso dell'onore, distanze
tra i Qui e gli Altrove.
"… L'altrove è in noi, nessuno è più lontano
e misterioso delle persone che ci vivono accanto.
La globalizzazione è un fatto compiuto, cui non resta
che opporre la tutela delle diversità, dei linguaggi
e delle culture di nicchia. Ma paradossalmente, pur
consumando gli stessi oggetti e le stesse mode, nel
mondo globalizzato vediamo crescere un odio per il
vicino che non sospettavamo così devastante. Oggi
un possibile altrove lo possono fornire soltanto le
scienze fisiche, con le loro mirabolanti ipotesi cosmologiche.
Quanto a Salgari, credo che fosse vissuto nella seconda
metà del Novecento sarebbe stato anche un bravo scrittore
di fantascienza. Avrebbe studiato, si sarebbe documentato,
avrebbe trasferito nelle lontane galassie inseguimenti
e vendette, intrecci d'onore e di morte ..."
Carlo Lucarelli, scrittore di noir, sull'unica strada che in Italia
corre dritta per quasi 300 km, la Via Emilia, la Route
66 del Belpaese per la formidabile concentrazione
di cineasti, letterati, musicisti.
"… Noi emiliano romagnoli abbiamo una particolarità,
siamo una specie di popolo nomade. Mentre chi vive
in altri posti sta in quei posti, chi vive a Roma
o per esempio a Lecce si muove e ha le sue coordinate
dentro la città, chi vive in Emilia Romagna vive all'interno
di una specie di strana megalopoli. È qualcosa che
diceva già Tondelli: chi vive dalle nostre parti dorme
a Modena, lavora a Bologna e va ballare a Rimini.
Questo asse che è la via Emilia, e la sua parallela
che è l'autostrada, è come se fosse la strada di casa.
Io sto a Morgano, che è vicino Imola, ma se vado a
comprare un libro vado a Bologna, se devo andare al
cinema vado anche fino a Rimini. La Via Emilia e l'autostrada,
a volte anche gli stradelli, sono le mie tratte. È
come se fosse il corso principale di una città, una
città che è fatta di Modena, Piacenza, Rimini, di
tutto quello che sta sulla e attorno alla via …"
Fosco Maraini, singolare figura di intellettuale anglo-toscano-giapponese,
etnologo, narratore, fotografo, alpinista, su viaggiare
come lezione di diversità, Oriente, montagne, Tibet,
Giappone.
"… Nel Tibet di oggi, con tutto il male
che si può pensare della situazione, ci sono strade,
veicoli, negozi. Nel '37 era veramente un tuffo nel
medioevo. Quando si lasciava Gantok, ai confini dell'India,
si diceva addio alla civiltà e al mondo per sei mesi.
Potevano essere scoppiate dieci guerre, non l'avremmo
saputo; era affascinante quel tuffo nel nulla. Anche
per fotografare era diverso. A quei tempi non esisteva
il lampo elettronico, il flash. Si usava la polvere
di magnesio conservata in barattolo. Si versava su
una specie di piastrina, che aveva una pietra focaia
che si comandava con un dito, si accendeva e bruciando
faceva luce al cospetto di lama e monaci tibetani.
Il lampo di magnesio era un procedimento molto incerto,
difficile. Stavo con il terrore di tornare in Italia
dopo sei mesi con tutto il materiale sovraesposto
o sottoesposto, perciò mi ero portato tutti gli acidi
necessari per sviluppare sul posto le pellicole. E
l'ho fatto rubando le ore al sonno, perché si viaggiava
sempre e poi la sera dovevo cercare una stanza per
sviluppare le pellicole. Certe volte le ho dovute
rifare …"
Leonardo Padura Fuentes, scrittore cubano, ex-cultore di Hemigway, sul suo rapporto
con lo scrittore americano e su quello del Papa con
Cuba, l'isola dove visse, tra un viaggio e l'altro,
per quasi trent'anni.
"… Io sono vicino a quelli che dicono che
Hemingway non aveva capito niente dell'isola: Cuba
per lui è uno spazio, non una cultura da avvicinare.
Un luogo dove vivere e scrivere tranquillamente, vicino
al mare. Parlava molto male lo spagnolo, malgrado
i suoi tanti anni di residenza. Non partecipò mai
a una conferenza, non si interessò degli scrittori
cubani. E poi mangiava come un nordamericano: nessuno
qui beve vino, beve rum o birra, lui beveva sempre
vino. Visse Cuba come folklore, senza capirla. Faceva
quel che voleva, senza che nessuno lo disturbasse,
prigioniero del personaggio che inventò, di una necessità
di trascendenza che fece sì che la sua casa si convertì
in una specie di museo vivente, con i trofei di caccia
alle pareti, i libri, la piscina dove Ava Gardner
fece il bagno nuda …"
Fulco Pratesi, naturalista,
polemista, fondatore e presidente del Wwf Italia,
la voce più forte e autorevole del movimento ambientalista
italiano, sull'andar per natura, viaggiare leggeri,
impatto e rispetto.
"… Per me viaggiare significa due cose.
Innanzitutto, fare esperienza di luoghi diversi, soprattutto
naturali e selvaggi. In secondo luogo, trasferire
questa esperienza nel nostro mondo, quello occidentale
cosiddetto sviluppato, e attivare correnti ecoturistiche
verso questi luoghi in maniera di dare la possibilità
a chi gestisce gli ambienti protetti di fruire del
reddito che l'ecoturismo garantisce. L'importante
è comportarsi sempre come ospiti in casa d'altri,
con molta circospezione, umiltà, prudenza. E rispettare
tutto ciò con cui si entra in contatto. Tradizione
e costumi, ma soprattutto flora e fauna. Non raccogliendo
conchiglie, non toccando coralli, non comprando oggetti
vietati in avorio, tartaruga e così via. L'importante
è viaggiare sapendo bene quello che si va a fare,
informandosi prima di partire per attrezzarsi al meglio,
sebbene non in maniera eccessiva perché più si può
viaggiare leggeri tanto meglio si viaggia …"
Patrizio Roversi e Syusy
Blady, i due "turisti
per caso" della tv italiana, due sguardi posati su
bellezze, luoghi comuni e miti del mondo, con voglia
di capire, ironia, sostanza e leggerezza.
"… I nostri sono diari di viaggio molto
personali. Non abbiamo l'ansia di raccontare non so
"New York" o "l'India", ma semplicemente ciò che ci
è accaduto. C'è una bella differenza rispetto allo
sguardo del giornalista che vuol cercare di essere
obiettivo; il nostro è un punto di vista assolutamente
soggettivo. Non sarà la verità oggettiva, ma è la
nostra. I luoghi li hai già visti mille volte, attraverso
cartoline, libri, tv, cinema. In quest'universo di
omologazione la differenza è nelle cose minime. Quello
che tu puoi riportare è l'appunto minimale. "Turisti
per caso", in quest'epoca post-post, documenta proprio
questo. Io mi fido di chi dice le cose in prima persona,
con sincerità e con una certa leggerezza. Prima di
partire, fai qualche lettura, cerchi qualche riferimento;
ma non troppo. Viaggiare in un posto senza saperne
molto ti dà uno sguardo un po' simile a quello dello
spettatore e le domande ti sgorgano dall'anima, ti
ritrovi a fare un percorso che documenti. I primi
due o tre giorni di smarrimento sono fondamentali,
ti vengono delle domande, ti tormenti, pensi che non
stai capendo niente; poi cominci ad avere delle risposte,
possibilmente dalla gente del posto, e a ricostruire.
È dopo il ritorno, quando visioni il materiale girato
e vai a leggere e a studiare, che ti fai un quadro
preciso …"
Giovanni Soldini, navigatore in solitario e in equipaggio,
su grandi regate, giri del mondo, rotte da seguire,
vivere a contatto diretto con la natura, buon vento.
"… Ho cominciato ad andare in barca proprio
perché avevo voglia di viaggiare e mi sembrava che
la vela fosse un ottimo mezzo per viaggiare perché
è un mezzo ecologico, perché ha dei ritmi di un certo
tipo, perché ti porti dietro casa tua e quindi non
hai tanti bisogni quando arrivi in un posto nuovo.
Ciò che trovo molto bello è lo scorrere del tempo,
il fatto cioè che tu parti dall'Italia e vai in Brasile,
ci metti un mese e mezzo ed è secondo me molto positivo,
perché ti lascia il tempo di uscire dalla tua condizione
di cittadino stressato e di prepararti a una nuova
condizione che è invece di uno che arriva in un paese
nuovo con della gente nuova, che parla un'altra lingua,
che ha un'altra cultura. Se ci impieghi dieci ore
con un Boeing 747 arrivi in un certo modo. Se ci metti
un mese e mezzo arrivi invece che sei molto più disponibile
verso l'esterno, hai molta più voglia di scoprire,
di avere dei contatti, hai conquistato l'approdo e
sei, nello stesso tempo, in una posizione adatta a
conoscere, ad avere degli scambi. Prima, certo, c'è
anche tutta la parte del viaggio per arrivare, quando
la barca ti porta e tu devi portare la barca, in uno
scontro di favori ..."
Wim Wenders, regista tedesco, ma anche fotografo, su viaggi (tra
Outback australiano, Midwest americano, monasteri
giapponesi, Habana Vieja), differenze tra cinema e
fotografia, influenze pittoriche.
"… Ho sempre invidiato quelle persone che
sentivano un legame con un certo luogo che lo rendeva
la loro casa, la loro vera terra, la loro patria.
Per quanto mi riguarda, fin da bambino ero affascinato
dall'idea che c'erano luoghi che non conoscevo. Il
mio senso di identità non è mai venuto da un luogo
che conoscevo, ma solo dal mio desiderio di continuare
a cercare e ricercare. Questo mi dava il senso di
chi fossi veramente. Non appena ero a casa, questa
certezza veniva meno. La lista dei miei luoghi di
elezione sarebbe molto lunga, ma anche sbagliata.
Perché non ho mai pensato di essere io a scegliere
i luoghi. Ho sempre immaginato che fossero loro a
scegliere me. O almeno che io fossi colui che ne aveva
sentito il richiamo e si fosse voltato per vedere
ciò che loro volevano mostrare …"
Andrea Pistolesi, fotografo "di ambiente e di viaggio",
specializzato nel reportage geo-etnografico, amante
delle innovazioni tecniche in grado di estendere le
potenzialità espressive delle sue immagini.
"… Fai il paragone con la professione di
giornalista. Se vai a Timbuctù per fare un servizio
sull'emigrazione in quella parte d'Africa, vai a parlare
con le persone, vai a vedere dove vivono, gli chiedi
cosa hanno fatto fino a ieri e cosa devono fare domani.
In altre parole, quando torni, hai costruito una storia:
hai l'ambiente, la persona, i suoi luoghi, la sua casa,
il suo negozio, dove va a fare la spesa o a ballare.
Devi insomma costruire una storia che giri intorno a
questa situazione, non puoi tornare a casa con dieci
immagini che messe insieme non raccontano la storia
che vuoi raccontare. E invece, nel 90% dei casi, chi
parte con la pretesa di fare il fotografo, parte all'incontrario;
con l'idea, cioè, di andare a fare dieci belle immagini
ignorando cosa sia Timbuctù. È lo scoglio su cui vanno
a sbattere in molti. E c'è da dire che questo tipo di
approccio viene sfruttato economicamente per tirare
giù i prezzi sul mercato …" |
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