Balla
coi lama
Ladakh,
India (foto
di L. Rinaldini)
Nelle
valli c'è animazione, malgrado l'aria rarefatta dei
quattromila metri. Lungo la strada, che costeggia il fiume
reso impetuoso dallo scioglimento dei ghiacci, si affollano
camion, bus, fuoristrada. Di norma trasportano beni di prima
necessità ai villaggi o ai campi delle forze armate
indiane che presidiano i confini con Cina e Pakistan. In questo
periodo sono carichi di gente che, come noi, si dirige verso
i monasteri. Quando, per superare i passi, la strada si inerpica
tra ripidissimi pendii incorniciati dalle vette pre-himalayane,
il convoglio si compatta. Si procede lentamente, sfiorando
il bordo delle gole. Numerosi scheletri di camion giacciono
contorti in fondo alle scarpate. Scritte nere sulla roccia
invitano alla prudenza: "pensa alla famiglia che ti aspetta",
"meglio cinque minuti di ritardo che non arrivare per
niente". Sui fianchi della montagna, altre testimonianze:
simboli religiosi disegnati dai monaci con pietre bianche,
un "dove osano le aquile" a caratteri cubitali lasciato
dai militari di qualche base vicina. Si attraversa un paesaggio
austero, minerale, abbagliante. Una sorta di Luna irradiata
dal Sole, percorsa da lunghe vallate, punteggiata da oasi
rare, circondata dalle montagne più colossali del pianeta.
I sentieri tracciati dalle mandrie che attraversano le valli
alla ricerca di cibo si confondono con i segni lasciati dal
vento che scava solchi e corrode la roccia. Ogni tanto l'occhio
percepisce lontane sagome di pastori nomadi e pecore in transumanza.
In alcuni punti le acque dei torrenti cadono a strapiombo
fra le gole, simili a lunghi sentieri argentati. Il Ladakh,
situato lungo la valle dell'Indo tra la catena dell'Himalaya
e l'altopiano tibetano, è da sempre un luogo di passaggi
incrociati. Anticamente, delle carovane indiane dirette in
Asia centrale come dei pellegrini in transito verso la montagna
sacra del Kailash, delle orde mongole come dei nomadi che
dall'altopiano tibetano si spingevano in Kashmir. Oggi invece
il "piccolo Tibet" (per paesaggi e cultura il Ladakh
viene più spesso associato al Tibet che non all'India
a cui appartiene) è divenuto una meta in sé.
L'ultima, ennesima, Shangri-La ...
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Ai
confini della terra
South
Australia
(foto di L. Rinaldini)
L'appuntamento con Cliff è alla Galleria delle culture
aborigene del Museo dell'Australia meridionale, la più
importante collezione al mondo di arte e cultura aborigena
grazie ai suoi tremila pregiatissimi reperti, molti dei quali
risalenti al periodo precedente lo sconvolgente arrivo dei
"coloni bianchi". Cinquant'anni, un gran cappello
in testa, la pelle scura degli abitanti originari del continente,
qualche tratto che fa intuire mescolanze passate, Cliff è
la nostra guida. Ci condurrà "attraverso uno dei
luoghi più antichi della terra", dice mentre saliamo
sul suo track 4x4: le Flinders Ranges, una regione montagnosa
che si estende per oltre 1200 chilometri dal bordo del golfo
St Vincent a nord di Adelaide fino ai grandi laghi salati
dell'outback centrale. Terre abitate da 15 mila anni dagli
Adnyamathanha ("il popolo delle rocce"), l'etnia
a cui appartiene. Terre modellate dai giganti del Tempo del
Sogno, esseri ancestrali con sembianze di serpenti, canguri,
lucertole o uomini, che errando e cantando crearono ogni cosa,
dai fiumi alle piante. Lì viaggeremo in compagnia degli
aborigeni, percorreremo le piste in fuoristrada ma seguiremo
anche a piedi le loro vie dei canti (i sentieri mitologici,
cari a Bruce Chatwin, attraverso cui fluisce l'energia che
continua a influenzare il corso delle cose), ascolteremo le
loro leggende, sperimenteremo il loro rapporto con l'ambiente,
dormiremo in campi di tende fuori dai villaggi o in mezzo
ai canyon ...
Il
più grande museo all'aperto
Isola di Pasqua, Cile
Nel
mezzo del più grande mare del mondo, a migliala e migliala
di chilometri da ogni altro luogo abitato, c'è una
piccola terra che per il suo isolamento e per la sua posizione
è stata definita la isla mas isla del mundo, "l'isola
più isola che ci sia". Il suo nome, in polinesiano,
è Rapa Nui; da noi tutti la conoscono come l'Isola
di Pasqua come la battezzò l'ammiraglio olandese Jacob
Roggeveen quando la scoprì nel giorno di Pasqua del
1722. Gli antichi abitanti la chiamavano invece Tè
Pito O Tè Henua, l'Ombelico del mondo. E basta spaziare
con lo sguardo dalle sue scogliere a picco sull'oceano o dalle
cime dei suoi vulcani spenti, per capirne il perché:
tutto intorno non c'è che acqua e ciclo, vento e silenzio.
Sul mare di cobalto, aperto senza confini, gli azzurri si
ricongiungono all'orizzonte. Il vento, che per il poeta cileno
Pablo Neruda "qui fondò la sua casa, chiuse le
ali e visse", trasporta veloce cumuli di nubi candide
o cariche di pioggia improvvisa. La luce e i colori mutano
di continuo e giocano sulla terra con le ombre delle grandiose
testimonianze del passato ...
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