L'Espresso
 
Degli articoli di vario tipo - testo+foto - realizzati per "L'Espresso" (reportage, di servizio, ecc.) riporto di seguito le pagine di apertura e alcuni brani iniziali. Chi fosse interessato a qualche servizio completo può scrivere a: apolitano@artsrl.it
     
 
Tropici e anarchia
Il delta degli elefanti, Botswana
Quetta Express, Pakistan
E il treno creò l'India, India
Il Paradiso dei tycoon,Fiji
Folgorato da Vincent, Francia
Gli spiriti di Bali, Indonesia
La collina dei Maya, Guatemala
Il sogno di Cook, Inghilterra

L'isola del millennio prima, Pacifico

 
     




Tropici e anarchia
Vanuatu (foto di Juan Manuel Castro Prieto)

L'attesa dura da sessant'anni. Hanno costruito rudimentali piste di atterraggio nella giungla, recinti di bambù lungo la costa per custodire i doni che arriveranno, torri di legno per avvistare navi e aerei, antenne radio fatte di lattine per annunciare il lieto evento. Ma finora lui - messia, spirito, eroe reale o fantastico - non è tornato, né la sua profezia si è avverata. Era apparso nei primi anni '40, tra la spiaggia e le pendici del vulcano dell'isola di Tanna, nell'allora arcipelago delle Nuove Ebridi, oggi Vanuatu, Melanesia profonda, ottanta isole vulcaniche sparse tra Australia, Fiji e Nuova Caledonia. Il misterioso visitatore aveva arringato gli anziani, spingendoli a rigettare le regole imposte dai missionari e a tornare al sistema tradizionale, il kastom, nell'attesa del benessere che sarebbe presto arrivato. Era l'epoca dell'avanzata del Sol Levante nel Pacifico; i giapponesi avevano occupato le vicine Salomone e gli americani, per arginarli, le Nuove Ebridi, installando rapidamente la loro macchina da guerra, costruendo piste, strade, ospedali. E scaricando dai loro cargo (aerei e navi) non solo frigoriferi, radio, tabacco e cibi in scatola "doni degli dei", ma anche stili di vita e comportamenti sociali. I melanesiani ebbero così l'occasione di sperimentare un cambiamento radicale rispetto ai bianchi che conoscevano, quei francesi e inglesi che si spartivano le isole dal 1906, in un governo a due chiamato "condominio", ma soprannominato ironicamente "pandemonio" per i guasti che creava, che durò per tre quarti di secolo fino all'indipendenza del 1980. E rimasero piacevolmente sorpresi - da "neri" del Pacifico - nel vedere il personale militare statunitense bianco e di colore usufruire dello stesso trattamento e degli stessi beni ...





Quetta Express
Pakistan (foto di J. Stanmeyer)

Hanno i vestiti della festa i gruppi di pastori e contadini venuti da lontano, le famiglie del ceto medio cittadino, le comitive di giovani a passeggio nello sconfinato cortile della moschea imperiale di Lahore. È venerdì, giorno sacro dell'Islam. In un angolo, una piccola folla sfila davanti alla tomba in arenaria rossa di Mohammed Iqbal. Rende omaggio al filosofo-poeta che, nel 1930, propose per primo l'idea di uno stato a parte per i musulmani d'India. Dieci anni dopo, a Lahore, la Lega Musulmana avanzò pubblicamente la richiesta di indipendenza. Nel 1947 il sogno del poeta divenne realtà: dallo sgretolamento del British Raj nascevano l'India e il Pakistan, il "Paese dei Puri". Lahore, capitale dell'impero moghul tra il XVI e il XVII secolo, motore intellettuale del Pakistan di oggi, ha cinque milioni di abitanti, strade congestionate, uno splendore persistente nelle architetture, una situazione sociale critica. Un tempo si poteva salire su uno dei minareti della moschea per ammirare il panorama dall'alto; ora non più, perché le torri di pietra rossa erano diventate il luogo prescelto da molti suicidi spinti alla disperazione dalla mancanza di lavoro. Lahore Junction, la stazione cittadina, sembra una fortezza. Gli inglesi la costruirono, nel 1860, con due funzioni: terminal ferroviario e, all'occorrenza, installazione difensiva. Pullula di militari e poliziotti. Una pattuglia sale sul treno in partenza per il sud del paese ...

 

Folgorato da Vincent
Francia, Van Gogh visto da Bacon

Arles, 1888: Van Gogh dipinge il suo Autoritratto sulla strada di Tarascona. Una figura solitaria avanza su un viale disseminato di foglie, carica di tele e colori, sotto il sole alto dell'estate del Sud, il viso all'ombra del cappello di paglia, sullo sfondo campi di grano e un villaggio lontano. Dresda, 1945: i bombardamenti alleati distruggono gran parte della città tedesca. Viene colpito anche il Museo di Magdeburgo; tra le tele che bruciano c'è l'autoritratto di Van Gogh sulla strada di Tarascona. Londra, anni '50: Francis Bacon vede una riproduzione fotografica di quel quadro ormai perduto e se ne innamora; tra il 1956 e il 1957 dipinge nove tele ispirate a quell'immagine rimasta nella memoria. Arles, 2002: nel decimo anniversario della morte del pittore inglese, e per la prima volta dopo 45 anni dall'unica esposizione londinese, l'intera serie è riunita in una mostra straordinaria - Van Gogh vu par Bacon, dal 5 luglio al 6 ottobre - nella sede della Fondation Van Gogh, non lontano da dove Vincent andava a spasso alla ricerca di soggetti e dall'ospedale dove venne curato quando si tagliò un orecchio. I nove quadri della serie, sparsi in vari musei e collezioni del mondo, con l'aggiunta di tre ritratti ispirati al pittore olandese, dipinti tra il 1951 e il 1960, e dell'ultimo Hommage à Van Gogh che Bacon realizzò nel 1985 quando la fondatrice della fondazione, Yolande Clergue, gli chiese per cartolina se aveva voglia di dipingere qualcosa in occasione della nascita di quella che aspirava ad essere la "casa degli artisti" voluta da Van Gogh. Bacon si mise subito al lavoro e dopo poche settimane inviò il quadro che chiude la serie. Ma perché l'ossessione per quell'immagine? ...

 

 

 

La collina dei Maya
Guatemala (foto di AA. VV.)

In cerveza veritas. "I maya sono morti, amico, non vedi che siamo tutti meticci, ormai? Siamo commercianti, non solo contadini, e parliamo spagnolo!", incalza un po' aggressivo quello più giovane e chiaro di pelle, passandomi la bottiglia e tenendo a bada con i piedi la sua gabbia di galli irrequieti. "I maya sono vivi, credi a me amico mio", replica l'altro, più scuro, tra un sorso di birra e una boccata di cigarillo. "Anche se mi chiamo Ramòn, io sono un maya puro, quiché al cento per cento", assicura. La sua famiglia discende dai Cavec, la stirpe più nobile dell'antico regno quiché: "Tecùn Umàn, il principe che combatté i conquistadores, era mio antenato", confida con orgoglio. Seduti sulla terrazza di un café-restaurante che domina la piazza del villaggio, ci godiamo l'approdo - il venditore di galli, il discendente del capo maya, il visitatore di passaggio - dopo le cinque ore di Interamericana trascorse gomito a gomito su una panca della corriera che dalla capitale si fa strada tra foreste, campi di mais e montagne. Siamo a Chichicastenango, Chichi (come abbreviano tutti), il "luogo sopra le ortiche circondato dai canyon". A duemila metri di altitudine, nell'altopiano del Quiché, la zona più maya del Guatemala, il paese con la maggiore percentuale - 2/3 circa - di popolazione indigena dell'intero continente americano. Sotto di noi la piazza brulica di preparativi. È sabato, vigilia del mercato all'aperto più celebrato del Centramerica (che si tiene da tremila anni, vuole la leggenda). Oggi, chi arriva per vendere la propria mercanzia paga una piccola somma alla municipalità, srotola stuoie e monta banchetti nella piazza e va a dormire con una coperta sotto i portici che la circondano. All'alba comincia il circo. Perché qui c'è el negocio, si scambia, si fanno affari. Ma non solo. Nei giorni di mercato, il giovedì e la domenica, Chichi è molte cose assieme: un luogo di compravendita di frutta, stoffe e sapone; una vetrina multicolore di luccicanze e feticci turistici in abbondanza; un posto per dar appuntamento a parenti e amici, per combinare matrimoni e fidanzamenti; un'area di riti ...

 

Il sogno di Cook
Yorkshire, Inghilterra

Era da qui che guardava verso il mare. In cima alla scogliera che domina il porto e la foce del fiume. Quel mare che nelle giornate brumose si riusciva soltanto a sentire e che in quelle di tempesta metteva paura per come sbatteva contro le rocce. Quando era ancora un giovane apprendista marinaio e la sera divorava testi di navigazione nella soffitta in cui abitava. Cerco lo stesso orizzonte, accanto alla statua che lo ricorda. Una figura in uniforme, in posa salda, lo sguardo che contempla lontano, un rotolo di mappe in una mano, un compasso nell'altra. Un po' più in là, un arco formato da due gigantesche ossa di balena ricorda il tempo in cui Whitby era il più grosso porto di navi baleniere d'Europa. Whitby, Yorkshire, Inghilterra settentrionale, Mare del Nord. Patria del capitano James Cook, il più grande navigatore di tutti i tempi. Se esiste, oltre allo spirito del luogo, uno spirito dei viaggiatori, sono venuto a cercare quello di Cook. Una parte, quella - più nota - degli approdi e delle scoperte, l'avevo incrociata nel Pacifico, teatro delle sue imprese, tra le piccole e grandi terre e distese d'acqua degli antipodi attraverso cui viaggiò, tre volte, per nove densissimi anni. Ne avevo visto segni abbondanti in baie solitarie, montagne e stretti di mare, isole da cartolina. Avevo navigato di fronte alle coste di Cape Tribulation, così battezzato dal capitano per le difficoltà incontrate nel superare la Grande Barriera Corallina australiana. Ero entrato nel cottage della famiglia Cook, che smontato pezzo per pezzo era stato rimontato nei Fitzroy Gardens di Melbourne. Ero salito sul piedistallo che doveva ospitare una sua statua (mai eretta) su un'isola minuscola che portava il suo nome, nell'arcipelago di Kiribati, abitata ora da milioni di uccelli migratori e un tempo da tartarughe giganti che il suo equipaggiò cacciò in abbondanza. A Tonga avevo camminato lungo le spiagge dov'era approdato. In Nuova Zelanda avevo sorvolato il Monte Cook, la cima più alta delle Alpi meridionali, e al largo di Auckland avevo visto una copia dell'Endeavour portare a spasso turisti danarosi. A Tahiti ero salito sul faro di Pointe Venus, il luogo da cui Cook aveva osservato il passaggio di Venere sul disco del Sole, motivo ufficiale del primo dei suoi tre viaggi di esplorazione. Alle Hawaii ero stato nella baia di Kealakekua, dove venne ucciso nel 1779 nel corso di una scaramuccia con gli indigeni per il banale furto di una scialuppa ...
     
 







Il delta degli elefanti
Botswana (foto di D.Doubilet e J.Hayes)

C'è in Africa un fiume che non incontra mai il mare. Nasce tra gli altopiani dell'Angola centrale, ma anziché scorrere verso l'oceano Atlantico, distante poche centinaia di chilometri, punta verso sud, senza incrociare altri corsi o specchi d'acqua in cui confluire. Avanza per oltre mille chilometri, fino alla savana arida e alle distese sabbiose del Kalahari. Lì, nel deserto, si dissolve progressivamente, evaporando per il 95%, riassorbito dall'atmosfera. Così l'Okavango, terzo fiume dell'Africa meridionale, scompare. Nell'ultimo tratto del suo cammino, però, dà vita a un ecosistema unico. Ogni anno, durante l'estate australe, le sue acque si gonfiano per le piogge che cadono sulle alture dell'Angola. Un'ondata di piena si riversa a valle, attraversa la Namibia e dopo aver zigzagato tra le rapide di Popa Falls entra in Botswana. Di fronte all'oceano di sabbia del Kalahari, straripa allargandosi a ventaglio, alimentando un delta interno di 15 mila chilometri quadrati, uno dei più vasti del pianeta, creato nei secoli dalle infinite ramificazioni del fiume. Un'oasi gigantesca, un universo labirintico di canali, lagune, paludi, laghi poco profondi traboccanti di pesci, isole, colline, foreste, boschetti di papiri, giardini di ninfee, piane alluvionali colme d'acqua nascoste dai canneti ...

 


E ii treno creò l'India
India (foto di J. Stanmeyer)

Il confine chiude al tramonto. I soldati di una parte e dell'altra sfilano in parata, sbattono marzialmente i cancelli in faccia ai dirimpettai davanti al pubblico di indiani e pakistani che ogni sera si affolla per l'ammainabandiera, tra urla di gloria alla patria e sguardi trasversali di consueta ostilità. La cerimonia al posto di Wagah è ormai un'attrazione, per assistervi si viene apposta dalle vicine Lahore e Amritsar, le due città del Punjab divise da oltre cinquant'anni da quella frontiera. Quando cala la sera, la tregua si fa vera. Sfrigolano padelle e stridono invocazioni di muezzin sul versante pakistano, televisori a tutto volume trasmettono l'ennesimo polpettone di Bollywood su quello indiano. Delhi ha iniziato in questi giorni a ritirare parte dei 500 mila uomini schierati da qualche mese lungo il confine. Islamabad lo ha salutato come un "passo nella giusta direzione" e ha promesso di fare altrettanto. In Kashmir, dopo le ultime elezioni boicottate dall'All Party Hurriyat Conference (che raggruppa 24 diversi movimenti separatisti), si è appena insediato un nuovo governo di coalizione. I giornali pakistani continuano a parlare di "esercizio elettorale senza alcuna legittimità", ma le armi tacciono. "Siamo stati molto vicini alla guerra. Ora ci siamo fermati, è bene così" dice Ahmed, venditore di scarpe musulmano, sul treno che da Amritsar porta a Delhi. I compagni di scompartimento, tutti uomini (le donne sono in scompartimenti riservati), si schierano poco a poco: c'è chi giura di essere pronto a combattere anche i fratelli di fede d'oltreconfine, chi dichiara di averne abbastanza del sangue che scorre nella zona da oltre cinquant'anni, chi evoca il pericolo della bomba, l'olocausto nucleare evocato quest'estate dai test pakistani di missili con testate nucleari capaci di colpire fino alla capitale indiana. La tensione per il conflitto si percepisce ancora. Ma sul treno strapieno che taglia lentamente la pianura, la vita ha ritmi placidi. Molti passeggeri preparano il tè, dormono, giocano a carte, guardano fuori dal finestrino, come in ogni angolo del mondo; pregano, rivolgendosi ai loro dei differenti ...

 

 

Il Paradiso dei tycoon
Fiji

Il piccolo bimotore dell'Air Wakaya ha qualche sussulto prima di mettersi in linea per l'atterraggio. Ma nessuno dei sei passeggeri, incollati ai finestrini ad ammirare lo spettacolo della laguna blu e dei filari di palme sulla spiaggia, sembra badarvi troppo. Atterriamo sobbalzando su una pista in erba ricavata sulla cima della collina, in un sobrio tripudio di wow e foto ricordo. Accoglienza tra il polinesiano e il californiano, ghirlande di fiori, grandi sorrisi, strette di mano poderose e via in jeep verso il resort. Scendendo, vediamo qualche cervo sbucare nel verde. Non scappano, sono abituati alla presenza dell'uomo. Dicono ce ne siano tremila, introdotti da più di un secolo. Noi invece siamo in fuga, pur temporanea, da case e traffico dell'Occidente. In uno dei Mari del Sud più alla portata dei visitatori lontani, malgrado i tentativi di colpi di stato a ripetizione (l'ultimo, due anni fa) e il conflitto latente tra indigeni e immigrati ...

 

Gli spiriti di Bali
Indonesia

Mattino presto, ancor prima dell'alba, pagi pagi come dicono qui. Salgo sulla mia Vespa rosso fiammante: 150 cc, quattro marce, originale, non un'imitazione Banjal costruita in India, ottimo stato apparente. 20.000 rupie per una giornata, "dall'alba all'alba" è l'accordo con il noleggiatore vestito a festa. Oggi è Galungan, la festa più importante di Bali, paradiso promesso del turismo di massa internazionale, eccezione induista nell'universo islamico indonesiano. Le scuole sono chiuse, le attività commerciali ridotte al minimo, anche il grande business del turismo si adatta ai tempi della celebrazione che, unica in un calendario traboccante di ricorrenze, coinvolge tutta l'isola. Per seguirla da vicino - lungo strade trafficatissime prima e via via più tranquille poi, quasi sempre asfaltate ma con qualche buca di troppo - ho fatto mio il punto di vista di Robert Pirsig (l'autore de "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta"): andare in auto è come guardare la tv, andare in moto è come immergersi dentro l'immagine. Accanto al "rent a bike" c'è un tempietto già zeppo di gente. Per i balinesi il rituale delle offerte inizia di buon'ora, davanti all'altare familiare o nel tempio del villaggio. Basta una piccola ciotola cosparsa di acqua santa, fatta di foglie di palma tenute assieme da schegge di bambù, con dentro polpa di cocco, limone e betel, un pezzetto di banana, qualche chicco di riso, una zolletta di zucchero di canna e un bastoncino di incenso, a volte anche sigarette e biscotti. Le foglie rappresentano la nascita, Brahma il protettore; il fiore è simbolo di vita, di Vishnu il creatore; il frutto evoca la morte, Shiva il distruttore. Anche ai demoni si offre qualcosa, sistemandola a terra, invece che su mensole e altarini, o nelle fessure tra le pietre, in vicinanza delle statue dalle fattezze spaventose messe lì per allontanarli. Così ogni giorno, più volte al giorno fino a sera, si mantengono buone relazioni con gli spiriti, si rende onore alle forze benigne, si placano ed esorcizzano quelle maligne. Bene e male, divinità e demoni in lotta permanente; ordine e disordine, bianco e nero in equilibrio dinamico, come testimonia il kain poleng, drappo a quadrettini bianconeri, che avvolge molte statue a presidio dei templi. A volte, però, la presenza del bene si fa più necessaria. E allora gli dei scendono sulla terra. A Bali accade ormai da secoli con regolarità, due volte l'anno ...

 

 

 

L'isola del millennio prima
Londra + Oceano Pacifico

Londra, Prologo. Camminavo sulla linea del tempo. Piedi puntati verso sud, un passo dietro l'altro, come un equilibrista: alla mia sinistra, a est, l'emisfero orientale; alla destra, a ovest, quello occidentale. La linea del meridiano 0 sbucava da sotto gli antichi strumenti di misurazione custoditi nel Royal Observatory, e correva lungo il cortile, tra turisti e scolaresche, prima di lanciarsi per i prati attorno. Pura convenzione geografica, d'accordo; ma incantatrice. "Il tempo inizia qui, a Greeenwich" mi spiegava Robin Catchpole, senior astronomer del Royal Observatory. "Nel 1884 una conferenza internazionale tenutasi a Washington stabilì che il meridiano fondamentale passasse di qui e fosse il riferimento convenzionale per calcolare l'ora in tutto il mondo". Se ormai sul quando avrà inizio il nuovo millennio non sembravano esserci più dubbi (il primo gennaio del 2001, perché, non esistendo un anno 0, un secolo e un millennio prendono avvio dal primo giorno del loro anno 1), la partita restava ancora aperta sul dove: quale sarà il paese a entrare per primo nel nuovo millennio, chi ne vedrà la prima alba? La questione era seducente, un enigma geografico all'apparenza irrisolto. Avevo interpellato, a Roma, i professori della Società Geografica Italiana, e consultato assieme grandi carte del Pacifico. Ero venuto a Londra e avevo parlato con gli esperti della Royal Geographical Society, tra busti di Livingstone e dipinti di Cook ...